ottobre 2003
Appena avuta facoltà di muovermi meglio, con il tendine guarito e il piede
malfermo ma capace di rispondermi, ho iniziato a rifare la mia camera,
quella nella quale ho passato tanti anni e nella quale concentro le beate
solitudini che mi sono concesse dal lavoro ed altri noiosi o impedimenti.
Dalla visione di "Bowling for Columbine", pellicola di grande pregio,
all'attività nella stanza, corre un disagio nei pensieri che riguarda la
vita moderna in generale, con il suo terribile paradosso per il quale,
nonostante il tipo di vita che conduciamo, siamo spinti a non fermarci mai,
ad accumulare e a temere per il futuro in maniera a dir poco patologica,
nonché, per finire su un livello planetario, a spendere le nostre risorse in
ricchezza puramente fittizia, che alimenta un sistema fine a se stesso,
invece che aiutare la razza umana.
Cosa questo c'entri con il film di Moore, lo lascio indovinare a chi l'ha
visto.
L'accumulo è la prima delle mie sofferenze, che osservo anche in altri
-meno frequentemente delle altre di cui parlerò, comunque- e che mi porta
a problemi di gestione della vita non indifferenti.
Prendiamo la mia stanza e le attigue: esse sono ricolme di riviste che non
aprirò mai più e di libri che non sfoglierò nemmeno tra cento anni.
Eppure il mio istinto perverso continua a sussurrarmi che a qualcosa
potranno sempre servire: a ricordare com'erano i primi computer, a cercare
algoritmi di dubbia utilità, a rivenderle -perfino- agli amatori che
verranno.
Il mio amore per le cose non c'entra nulla: è un amore puramente culturale,
se vogliamo, ma altrettanto deleterio e vano.
Passo ore a spostare oggetti per fare posto ad altri, dicendomi che finito,
quando avrò finalmente finito, potrò dedicarmi a dipingere.
In realtà, non avrò mai quell'orizzonte sgombro perché ho accumulato troppo,
e la mia fatica per disfarmi del superfluo è infantile.
Cominciò così più di venti anni fa, in realtà. Già allora osservavo la pila
di pagine crescere e crescere, e tentavo di creare indici degli articoli in
modo da non rendere quella massa cartacea amorfa ed inservibile.
Ma essa cresceva più rapidamente della mia capacità di redarre indici e di
distinguere tra il veramente utile e il superfluo.
Poi mi venne in mente di tagliar via solamente gli articoli più utili e
buttare il resto, ma l'idea di fare scempio di un prodotto cartaceo mi
disgustava, e così la massa cresceva, e cresceva.
Ritrovo questa malattia in coetanei che hanno messo insieme scatoloni di
fumetti prima di me -ma anche quello mi è toccato- e che oggi devono
dedicare librerie intere.
Per non buttare nulla, perché ogni oggetto ha la sua dignità, in un certo
senso.
Poeticissimo punto di vista, certo, ma mi stava conducendo
all'autodistruzione, a non godere più, a non vivere delle stesse cose che
più apprezzavo.
Osservo con disgusto le corse agli acquisti di alimentari che si
preannunciano con ogni guerra. In realtà, accadde da noi solamente con la
prima guerra del Golfo, eppure negli Stati Uniti vi sono aree nelle quali
questa è la norma, come l'accumulo di armi per difendersi dalla violenza che
si agita fuori della porta di casa.
E non è lo stesso comportamento che si vuole dai miei concittadini, con
questo continuo martellare sul tasto del terrorismo, del pericolo, del
bisogno di sicurezza?
Quanti intorno a me non fanno che vedere pericoli dappertutto?
Eppure io non sono stato cresciuto così.
Non solo, lo dico con cognizione di causa: più alto è il ceto sociale, più
la paura è scioccamente diffusa e l'incertezza opprimente.
A questo serve la ricchezza?
Il benessere sembra destinato a generare esclusivamente la paura di
perderlo.
Ha senso che la crescita della ricchezza sia accompagnata dalla continua
crescita dei prezzi?
Possibile che se rapportiamo la nostra disponibilità ipotetica a quello che
possiamo comprare con essa, siamo sempre allo stesso punto?
Qual'è il fine di far crescere una nazione, se poi vi si vive senza ottenere
un vero miglioramento?
Lasciamo stare i meccanismi economici, degenerati e strutturati in modo da
costringere il denaro a circolare sempre per le stesse mani.
Chiediamoci, semplicemente, se tutto questo abbia un senso.
Ha senso il fatto che con venti euro potrei sfamare un bambino del Terzo
Mondo per un mese, mentre qui mi bastano per un solo giorno?
Ma ancora più in fondo, ha senso che lo stesso cibo qui costi trenta volte
di più?
Non capisco, non capisco, non capisco.